sabato 29 febbraio 2020

Il campanile di Codogno


    A forza di sentire parlare di Codogno ci è venuto in mente Giulio Maccacaro, grandissimo epidemiologo e biostatista, che a Codogno era nato e cresciuto e che di Codogno si sentiva fiero cittadino. Maccacaro fu la voce più autorevole e brillante di quella che, negli anni ’70, chiamavamo medicina democratica. E per questo fu punto di riferimento per tanti studenti e giovani medici di allora, motivati dal desiderio di dare maggiore compiutezza e maggiore significato sociale al proprio lavoro. Maccacaro fu amico di Franco Panizon e, per noi pediatri triestini che lo seguivamo a distanza, fu soprattutto l’ideatore e il curatore della collana Medicina e Potere (Feltrinelli), fu fondatore e direttore della rivista Epidemiologia e Prevenzione, fu tenace sostenitore (ed esempio praticante) di una scienza giusta, attenta ai problemi reali delle persone: una scienza quindi per forza di cose di parte e non egoistica e abusante come quella che altri definivano, ipocritamente, la scienza neutrale.
    Tra tante altre cose che ha fatto, Giulio Maccacaro ha anche scritto un breve racconto. Ed è proprio questo racconto, intitolato “Il campanile di Codogno”, che adesso più che mai ci sembra bello e opportuno riproporre ai lettori di Medico e Bambino. Si tratta di un discorso-racconto (già pubblicato sulla nostra rivista nel 1997 per ricordare Giulio Maccacaro a vent’anni dalla sua morte) che Maccacaro tenne ai cittadini di Codogno quando, nel 1975, fu da questi insignito del titolo di “Codognese benemerito” .
    È un pezzo breve e intenso, che trasmette con semplicità valori assoluti. Ma che offre oggi, nel contesto dell’italica risposta al coronavirus, una possibilità di rilettura attualizzata e non priva di qualche sorriso. Con Codogno e il suo campanile al centro del mondo, con il treno che arriva a Codogno e fa scoprire che c’è un altro mondo attorno, con un cittadino di Codogno che dopo aver scoperto e girato il mondo (Mccacaro stesso) …ritorna a Codogno per ritrovare e condividere valori umani assoluti e irrinuinciabili come l’amicizia, la solidarietà, l’affetto. Riproporre questa lettura è per noi di Medico e Bambino anche un modo per far sentire ai colleghi dell’ospedale di Codogno e a tutti i Codognesi la nostra simpatia, la nostra vicinanza, la nostra solidarietà. Perché sappiamo e capiamo quanto sia difficile essere Codognesi in questi giorni. Giusto, eccessivo o assurdo che sia tutto quello che sta accadendo.

Medico e Bambino


Il campanile di Codogno*
    «Non avevo più che cinque anni quando per la prima volta, vidi un uomo in cima al campanile. Poteva essere un fabbro campanaro, ma io non sapevo nemmeno il significato di queste e altre parole. Io credevo che le torri delle chiese crescessero sulla terra come alberi di pietra affinché gli angeli vi appendano le campane. Così la presenza improvvisa di un uomo mi lasciò a bocca aperta.
    Ma presto scomparve dalla vista ed io corsi a chiederne a mia madre: le chiesi cosa quell’uomo avesse mai fatto e veduto e mia madre rispose di aver saputo che quell’uomo aveva guardato da ogni parte ed aveva visto che il mondo è, tutt’in giro, perfettamente rotondo e che ciò prova, oltre ogni dubbio, come di questo mondo Codogno sia l’esattissimo centro. Tale risposta mi parve subito assolutamente chiara e convincente, come tutte quelle che la mamma, anche maestra, dava alle mie domande. Perciò desiderai moltissimo essere quell’uomo per andare sul campanile e dal centro del mondo vederne la rotondità più che perfetta. Ma la mamma disse che non si poteva, neanche pensarci, senza il permesso del Prevosto e che questo permesso, se proprio lo volevo, avrei dovuto chiederlo io stesso.

    A quel tempo il Prevosto era monsignor Grossi: un anziano sacerdote, di pingue forma e candidissimi capelli, che ispirava grande soggezione. Almeno a me, quando lo vedevo passare per la processione del Corpus Domini con i paramenti, l’ostensorio, il baldacchino, la banda, l’incenso e tutto il resto. Ma anche quando, di rado, attraversava la piazza, in mezzo alla gente, un po’ curvo in avanti, con una mano dietro la schiena a sostenere una mantella nera tutta foderata di rosso. Rossi o cremisi erano pure il gran fiocco del cappello e le calze che si vedevano nelle scarpe, a fibbia, di vernice: a me queste calze cremisi facevano una grandissima impressione, ancora più del fiocco e del mantello. Monsignor Grossi veniva a scuola, una volta all’anno, a interrogarci in religione e la maestra ne era più agitata di noi. Insomma, era un personaggio questo prevosto che soleva dire «Agitur de centesimo, ergo de re gravi» ed io non ebbi mai il coraggio di chiedergli il permesso di andare in cima al campanile. E quando ce ne fu un altro ormai ero un altro anch’io.

    Comunque non dubitai minimamente, per tutti gli anni della mia ostinata innocenza, che il mondo fosse rotondo e che Codogno stesse propriamente nel suo centro. Anzi, mi ero fatto l’idea che la nostra circonvallazione contenesse se non proprio tutto il mondo, certamente la sua parte più importante e con essa tutti gli uomini e le cose che contano. Un giorno di quell’inverno in cui imparai a leggere andavamo - la mamma, una pentola di rame ed io - verso un calderaio che aveva bottega e officina agli inizi della strada per Mulazzana. Da quella parte di Codogno c’era allora non so se una segheria o una legneria di tale Marconi ed io quel giorno fui capace per la prima volta di leggerne il nome dipinto a grandi lettere sul muro: così chiesi a mia mamma di accompagnarmi dentro a vedere la radio. Ma la mamma sorrise e continuò a camminare con me e con la pentola di rame mentre io continuavo a credere che anche l’inventore del telegrafo senza fili appartenesse a questo nostro mondo dai confini un po’ misteriosi come sono, appunto, i confini di un universo. Là verso oriente, sul viale che conduce dal Vecchio Ospedale, al Cimitero, alla cripta sotterranea della Madonna sentivo il mistero della malattia e della morte, di questa vita e di un’altra. Al cimitero mi accompagnavo spesso per vedere, nelle fotografie tombali di ceramica, il volto dei nonni che non avevo conosciuto. E, per questo verso, mi sembrava il cimitero, un altro rione del paese, abitato dal silenzio e dall’affetto.

    Ma, per un altro, lo sentivo come luogo di eventi strani e tenebrosi, tra i quali un bambino non potesse avventurarsi da solo. La sua cinta e il suo ingresso erano molto diversi allora, prima che fossero rifatti come oggi sono, in stile littorio: c’era un piccolo portico davanti al cancello di ferro, con due sedili di pietra e con una finestrina dalle due parti. Avevo sentito dire che i briganti vi si davano appuntamento di notte per spartire la refurtiva: una volta accadde che uno di loro vi rimanesse in attesa, nel buio, di altri due che erano andati a rubare un maiale. Ma quella notte, presso la stazione, fu trovano uno straniero, morto misteriosamente.
    Così i becchini, chiamati notte tempo, ne caricarono il cadavere su una barella e questa su una carriola per portarlo al cimitero. Colui che attendeva sentì avvicinarsi nel buio un cigolìo e pensando si trattasse dei suoi compagni di ritorno con il maiale gridò: «È grasso o è magro?». I due becchini credettero di aver capito male e si avvicinarono ancora un po’ al cimitero, con il morto sulla carriola, finché l’altro, convinto ed impaziente gridò: «È grasso o è magro?». Allora si presero un grandissimo spavento, per quello che parve loro certissimamente un diavolo in attesa, esclamarono «Grasso o magro, tienilo com’è» e - abbandonato il morto, la barella e la carriola - se la diedero a gambe nella notte, verso le loro case.
    Storie come queste hanno popolato la mia infanzia che appena si affacciava su quel confine misterioso, tra l’ospedale vecchio, il cimitero e la cripta della Madonna, sul viale, della circonvallazione, là verso oriente.
    Ad occidente, invece, stava il confine della ricchezza - per me misteriosa quanto la morte - sull’altro viale che scorre lungo le ville Polenghi, Biancardi e Gandolfi fino alla passerella della stazione.
    Io non ho mai varcato la soglia di quelle ville ma ne ho scrutato i giardini e immaginato gli interni guadando dalla strada tra le inferriate di cinta. Sapevo che vi abitavano più domestici che padroni, che c’erano più stanze che persone, più giochi che bambini: ne conoscevo qualcuno a scuola, ma non erano così buoni e bravi come io immaginavo dovesse essere per chi esserlo sembrava così facile.
    Con tutto ciò il mio interesse maggiore era la passerella che, di fianco alla stazione, passava sopra i binari dei treni.
    Ci andavo molto spesso, ancora più che al cimitero e alla cripta della Madonna: era il confine della fantasia. Guardavo naturalmente il passaggio dei treni, le manovre delle locomotive, le facce dei fuochisti: tutto mi sembrava meraviglioso e quando, da sotto, una grande nuvola di vapore bianco ci avvolgeva completamente, ero completamente felice. Poi un giorno mi spiegarono che ci sono dei treni che non si fermano mai alla stazione di Codogno, treni che vengono di lontano e vanno molto lontano e mi spiegarono che su questi treni ci sono anche dei posti dove si dorme sdraiati come in un letto ed altri posti dove si mangia intorno a dei tavoli imbanditi come a Natale.
    Scesi dalla passerella, entrai in stazione e ne guardai passare uno e poi, in seguito, molti altri, cercando di scrutare attraverso i fuggevoli finestrini gli oggetti, le persone e i volti di tanto mistero. Finché un giorno mi passò davanti agli occhi - mentre il treno riprendeva corsa dopo aver appena rallentato. il volto di un bambino come me con il naso schiacciato contro il vetro. Così fu che per la prima volta sentii l’esistenza di un altro mondo che veniva da altrove per andare chissà dove scorrendo senza fermarsi vicino al mio mondo, come se questo non esistesse. Fu la prima inquietudine: più tardi cominciai a sentire che la circonvallazione mi stava stretta.

    E così, non appena fu tempo, presi il treno anch’io e poi la nave e poi l’aereo e me ne andai un po’ qua e un po’ là per la Terra.
    Da allora sono passati tanti anni, il tratto maggiore di una vita immeritevole e fortunata. Ho visto le due sponde dell’Atlantico ed anche quelle del Pacifico, ho sorvolato le Ande e l’Himalaja, ho camminato per Nuova York e Nuova Delhi, sono stato ospite del Cile e della Cina, ho dormito con i feddayn del Golan e ho mangiato con i contadini dello Shantung, ho trovato amici tra i minatori e i premi Nobel, ho conosciuto gli uomini più diversi.
    Per tutto questo e per molto altro io ringrazio la buona sorte, l’amore di chi mi ha cresciuto, la generosità di chi mi ha aiutato. Io ringrazio la vita che mi ha coinvolto in tante cose e me ne ha sempre proposte di nuove.
    E’ bello camminare, andarsene con la vita: sembra che porti lontano e che più lontano ci sia ancora e sempre qualcosa. Ma è bello anche tornare: quando ci si accorge che la speranza contiene il germe della disperazione, che il nuovo è fatto di antico, che le grandi cose sono quelle che sembravano piccole: i valori profondi, gli affetti veri, le verità prime.

    Allora uno si sente improvvisamente trasalire: si chiede con sconosciuto sgomento: «Ma dove sono arrivato? Dove sto andando? Sono stato così cieco da non vedere che là dove sono le mie radici, tra la gente della mia terra, era già tutto quello che andavo cercando, erano le cose che contano, il bene che vale?». Perché in fondo il viaggio più meraviglioso non è quello intorno al mondo, ma quello intorno all’uomo - così sempre nuovo e diverso, con tutta la sua grandezza e la sua miseria, con l’universo del suo amore e del suo dolore. E questo universo è dovunque, in ciascuno: nel nuovo bambino che ci ha raggiunto quest’oggi, nel vecchio che da oggi non è più. È qui e là; altrove e in questo dove. Basta saperlo riconoscere, andargli incontro con lo sguardo pulito per leggere la sua storia che è ogni volta la storia di tutte le storie. Allora mi son sentito, a un certo punto, soprattutto in questa età ormai cinquantenne, disperso e remoto alle mie radici. Mi son chiesto: «La mia gente mi riconosce ancora come uno dei loro?». Ne ho dubitato ed ho sofferto per questo dubbio.

    Ma anche se inattesa è giunta questa festa e questa vostra generosità a dirmi che sono, come avete voluto, un codognese benemerito. Ora io so di non essere benemerito di nulla e che solo la vostra bontà mi può attribuire ciò cui non ho alcun titolo. Ma tengo moltissimo a che mi riteniate sempre e soprattutto uno di voi, uno che può condividere un po’ della vostra festa. Per questo sono qui con molta commozione e un desiderio. Io qui poserò, dopo tanta inquietudine, con il mio piccolo sogno durato una vita. Io spero che chi ne ha facoltà mi concederà prima o poi di salire su quel campanile cui ho guardato tante volte che non saprei più contare. Andrò fin sulla cima e mi guarderò in giro: ci andremo insieme se verrete con me, come io spero, ed insieme vedremo ciò che la mamma, che fu anche maestra a voi, mi aveva insegnato allora perché lo capissi oggi: che tutt’in giro il mondo è perfettamente rotondo e che Codogno sta al centro, come le cose essenziali, semplici e vere sono al centro della vita».

*Discorso pronunciato il 2 febbraio 1975 presso la Fondazione Limberti, in Codogno, durante la cerimonia per la consegna del premio “Codognese benemerito”, Codogno 1977 (ed. f.c. a cura della Associazione Pro Loco Codogno); rist. in Per una medicina..., op. cit., pp. 483-491.

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