martedì 3 luglio 2012

ANTONIO CAO

È morto Antonio Cao. Non all’improvviso. Un cancro polmonare. Un anno fa eravamo assieme, a Ferrara, a ricordare l’altro campione della guerra alla talassemia, Rino Vullo.
 
Tutti si muore, con la propria storia alle spalle, dopo aver fatto parte della grande comunità umana, e della piccola comunità che mette ciascuno in relazione con questo insieme caotico e grandioso, con questo insieme in marcia non si sa per dove, che è, appunto, l’umanità. La piccola comunità in cui ha operato, per più di mezzo secolo, Antonio Cao, siamo noi, la pediatria. E la pediatria è una piccola nicchia nella macchina della medicina, che a sua volta è un sistema complesso, parte di un sistema enormemente più complesso, in cui il peso di ciascuno è quasi impercettibile. Eppure non è così. 
Non è così mai, perché tutto quello che facciamo, ogni decisione che prendiamo, ogni momento del nostro rapporto con i nostri compagni di viaggio, ha un peso. E certamente il peso di Antonio nella storia della sua isola, la Sardegna, nella storia della malattia sociale più importante della sua isola, e di tutta l’Italia, la talassemia, nella storia delle migliaia di persone che con questa malattia sono e sono state implicate, e nella storia della pediatria italiana, dico proprio nella sua storia materiale, ma anche nella storia della scienza, dunque direttamente nella storia dell’umanità, è stato molto più grande di quello della maggior parte dei suoi compagni di viaggio.
 
Cao, in portoghese, vuol dire cane; e si pronuncia anche così: “can”. E sebbene lui non fosse d’accordo su questa mia interpretazione fiabesca delle sue origini, io non ho mai potuto fare a meno di immaginare i suoi progenitori, nobili ebrei portoghesi in fuga dalla penisola iberica, trovare pace e rilevante collocazione sociale nell’isola ruvida, aperta ai venti e agli stranieri. E a lui anche, il nome di “cane” non è che non si adattasse. Un mastino. Uno che non lasciava andare. Superbo e ostinato nella Sua ragione: che era la ragione di uno che l’etica ce l’ha dentro. Un’etica che non tiene conto delle “circostanze”, del modo di pensare corrente, delle debolezze di un mondo debole. L’etica che non si nomina, che non si sbandiera, ma che detta quasi automaticamente le scelte: “non posso fare le cose che non sento di poter fare”. La mia esperienza della vita, e del mondo, e specialmente delle cose che succedono là dove la professione diventa diplomazia, e dove si segnano i destini delle persone (e dunqueanche delle cose) sono limitate. Ma, pur conoscendo persone “le più brave del mondo”, non conosco nessuno che, nei fatti,
abbia saputo fare quello che lui ha fatto, decidere silenziosamente, in concorso, contro ogni pre-decisione, contro ogni “conoscenza”, contro ogni accettato compromesso, e solo per scegliere, liberamente, i migliori, quelli che risultavano tali, concretamente, nella loro storia, nei loro lavori, nel loro impact factor.
La storia di Antonio Cao ha a che fare anche con la storia di Medico e Bambino, su cui ha anche scritto, sui suoi temi difficili, col suo scrivere non facile.
Nel 1968 soffiava in Italia un bel vento di rinnovamento. Questo vento è soffiato anche per la Pediatria; e, per la Pediatria, non c’è dubbio che quel vento si chiamasse ACP. Lui è sempre stato, con Sereni, con Durand, con Sansone, con Vullo, con Biasini, e con tanti altri, al centro delle operazioni.
È stato, e lo era ancora, con Prospettive in Pediatria, la Rivista che voleva portare in Italia, ancora chiusa nel ricordo dell’autarchia, la cultura pediatrica del Mondo.
Mi viene ancora in mente, perdonatemi, un altro Cao (portoghese, naturalmente): “nel 1471 Diego Cao, per primo, doppia Cabo Catalina con due vascelli, ciascuno dei quali porta nella stiva una croce di pietra alta due metri, un padrão: il primo lo pianta sulla sponda sud del fiume Congo, e il secondo al Cabo Santa Maria, vicino a Luanda”. Col vento fresco, verso il nuovo.
Ha diretto la Clinica Pediatrica di Cagliari dal 1974; dal 1980 ha diretto l’Istituto di Microcitemia; nel 1992 è diventato direttore del Centro del CNR per la ricerca sulla talassemia. Nel 2010 gli è stata conferita l’onorificenza di Maestro della Pediatria italiana, non soltanto per meriti di carattere culturale ma anche per quelli di ordine sociale e morale. Ma mi piace più ricordare un riconoscimento minore, quello della consegna del “Sardus Pater”. Gliel’ha dato nel 2008 l’allora Presidente Soru, indimenticabile anche lui: e sarebbe l’immagine del favoloso padre originario di tutta l’isola: “Le consegno questo premio come a un babbai (babbai vuol dire papà) di tutta la popolazione sarda. Non è stato soltanto un padre per tanti bambini che oggi possono nascere sani, ma anche per il ruolo di Maestro della Scienza. Dopo i ringraziamenti di tutti i genitori della Sardegna, la ringraziamo anche noi, rappresentanti delle Istituzioni”. Queste, e molte altre, sono, comunque, delle medaglie. Ciascuno è sempre qualcosa di più, ovvero qualcosa di meno delle sue medaglie. Lui, il nobile mastino, era molto di più delle sue medaglie.

Franco Panizon

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